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Queste sono le mie percezioni nomadi, riflessioni dai miei viaggi negli ultimi 14 anni.

I volti, i muri scrostati, i tetti di paglia delle capanne e le baracche di lamiera. Il cibo di strada, il caldo, le città immense. Tutte queste strane scritte in alfabeti sconosciuti, la curiosità della gente, i villaggi, il tè, il cambio delle valute, i valichi di frontiera. Tutti i letti e le camere cambiate, ogni giorno un giorno diverso. Venditori di ogni genere di merce, orari di treni, aerei, autobus e navi.

I mantelli e gli ombrelli dei monaci, i sorrisi del Buddha, gli occhi felici dei bambini, gli occhi tristi dei bambini. I grandi baffi degli indiani, lo sguardo sereno del Dalai Lama. Amici da ogni dove e i loro sogni, i tramonti sui templi, i vari tentativi di fregarmi, il mare azzurro. Assaporare il salt coffee vietnamita al West Lake di Hanoi, i pipistrelli alle Grotte di Mulu, gli addii e il dolore della separazione. Scoprire che il mercato tradizionale si è trasformato in uno moderno, le maledette scimmie dispettose, i grattacieli di Hong Kong e le loro luci al neon.

Pensare a cosa fare e dove andare, i piani saltati, i nuovi piani, fare e disfare per creare qualcosa di sempre bello. Rimanere imbottigliati nel traffico di Giakarta, le contrattazioni infinite per pagare solo qualche centesimo in meno. Incontrare un amico a Tokyo, sfrecciare in scooter per le strade di Kota Kinabalu, presentarmi a sconosciuti che non parlano la mia lingua, programmare un viaggio per poi dover cambiare tutto e improvvisare su due piedi qualcosa di nuovo ed inaspettato. Una barca per l’isola più a Nord di Sumatra, le incomprensioni dovute alle barriere linguistiche con persone di culture diverse, il desiderio di lasciare un posto, il desiderio di tornare in una terra lontana che considero casa, il lasciare andare una mano familiare, una parte di me si chiede se è per sempre .

Le fotografie, le barche sul Mekong, il dolore ai reni mentre sono su un autobus verso Siem Reap, cavalcare un elefante, le bandiere tibetane. Imparare a dire ciao e grazie nella lingua del paese che sto visitando. Le dolci onde delle acque delle isole della Malesia che variano nei toni del blu, del verde e del turchese, esplorare i canali di Bangkok, lavare i panni sotto la doccia, la polvere, i giri in bicicletta, bere in una Izakaya a Osaka. La speranza della gente e le loro paure, le informazioni richieste ricevute con la massima cortesia, scalare l’Annapurna, la pelle azzurra di Shiva, la pancia di Ganesha. Il lungofiume di Kuching, le attese negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie, dormire su qualsiasi superficie, le vecchie canzoni coreane in un club di Hongdae.

Andare ovunque e con qualsiasi compagno, i noodles, una vecchia sconosciuta che mi dà il buongiorno per le strade di Malacca, abituarmi al cibo locale, i draghi, le tigri e le leggende. Guardare e contemplare paesaggi sconosciuti dal finestrino di un autobus in panne, il canto dei gechi, le spiagge di sabbia bianca, l’essere visti come un alieno, il mio pessimo inglese, l’infinita muraglia cinese. Tutto il tempo speso per trovare un modo per mantenermi, i visti e la lunga attesa per ottenerli. Osservare la prossima destinazione dall’aereo, non sapendo cosa accadrà o quanto tempo rimarrò lì, quasi piangere davanti alla statua di Gundam a Odaiba, gli scooter, gli autobus e gli autobus e ancora agli autobus.

I ventilatori rumorosi in camera che rendevano difficile il sonno, degli ottimi gamberetti mangiati su una spiaggia cambogiana, i check-in e check-out interminabili. Incontrare nuovamente una persona importante, scambiare informazioni ed esperienze con altri viaggiatori, i moto-taxi, le strade, l’attesa dei bagagli in aeroporto. Ridere e scherzare con una giovane venditrice ambulante in un tempio di Bagan, il rosso sputato degli indiani e dei birmani che masticano il paan, gli sleeping bus vietnamiti, registrare qualche video per Youtube, le diverse prese di corrente e gli adattatori. La borsa che mi è stata portata via a Kuala Lumpur, gli strani frutti, il dire addio a qualcuno, le notti folli a Itaewon, l’odore unico del durian. Cavalcare un cammello, fare surf a Dulan, bere con la gente del posto Beer Lao in un piccolo villaggio remoto del Laos, le mappe della zona, gli infiniti 7-Elevens ad ogni angolo, sedersi accanto a sconosciuti e condividere un sorriso.

Le feste indiane che si tengono praticamente ogni giorno, gli occhi tristi di una signora che guarda il mare a Busan, le preghiere tibetane e i loro canti, gli orrori delle guerre, camminare mano nella mano, cucinare cibo italiano per sconosciuti, cantare in un noraebang a Seoul . Dire “‘fanculo” a qualcuno, chiedere scusa a qualcuno, andare in moto sulla costa nord di Taiwan, cavarsela in ogni situazione ad ogni costo. Le accelerazioni che ti schiacciano contro il sedile dell’aereo in decollo, il Mare dell’Est in Corea del Sud, fare autostop intorno a Taiwan. Incontrare di nuovo un sorriso familiare, i sobbalzi della strada che ti fanno saltare sul sedile di un autobus, affrontare da solo qualsiasi tipo di problema. La musica ad alto volume, il Chilometro Zero dell’Indonesia, il correre rischi per evitare rimpianti futuri, camminare con le infradito, prenotare un volo verso destinazioni sconosciute.

Un mercato locale, ascoltare la storia della vita di qualcuno, scalare il Monte Misen nell’isola di Miyajima, la dea del mare Mazu, scoprire che non era quella giusta e fare le valigie e andarsene, la voglia di vivere e non solo sopravvivere come un animale, provare a capire una nuova cultura, il gigantesco tempio a forma drago a Suphan Buri, sentire il mio nome pronunciato per la prima volta da qualcuno che diventerà speciale, incontrare vecchi amici e scoprire che sono cambiati troppo, le verdi risaie di Mae Hong Son. Un caffè con uno sconosciuto, incazzarsi con una cultura, i simpatici panda, un amico che mi fa scoprire il cibo locale, il disperato bisogno di libertà. Far piangere la mia ex davanti al Taipei 101, gli strani animali dello Zoo di Singapore, la data di scadenza del visto.

Cercare di superare i limiti delle nostre culture, provare ogni tipo di cibo che la gente mangia anche se è davvero strano, condividere tutto con chiunque, annoiarsi di un posto, fare snorkeling in Malesia, l’alfabeto coreano. I telefoni della gente del posto con le suonerie sparate a tutto volume, scrivere un blog, il karaoke e le fiction in tv sugli autobus del sud-est asiatico, lasciare un paese senza sapere se lo rivedrò. Ubriacarmi a una festa di paese nella giungla del Borneo, le donne con i tacchi alti che pedalano sotto la neve a Fukuoka, la metropolitana di Tokyo, le incredibilmente forti Haenyeo nell’isola di Jeju, le poche cose nel mio zaino. Il matrimonio di un amico a Hangzhou, i baci, perdersi nei pensieri, la gentilezza delle persone, l’ultimo addio ad un sorriso familiare, alcuni ragazzi nepalesi che condividono con me qualche snack, gli idoli coreani, i veli delle studentesse in Malesia. La prima notte a Bangkok dove non riuscivo a respirare per il caldo estremo, le notti insonni per il rumore, i ghiacciai nepalesi, la pioggia, il vento, i nuovi sapori, le email e i messaggi con amici lontani.

Insegnare a qualcun altro quello che sai, imparare da ogni evento e persona, l’amore che si nasconde dietro gli occhi pieni di paure, una spiaggia infinita di sabbia bianca, qualcuno che ti aspetta all’aeroporto, le birre gustate nei bar lungo la Fiume Chao Phraya, sfuggire ai turisti e agli espatriati cercando di immergermi nell’autentica cultura locale, la maestosa potenza delle onde a Mirissa, il cibo piccante, le estensioni del visto, i colori di tutto ciò che mi circonda,

mirare e rimirare la mappa del mondo per continuare a sognare questo bellissimo sogno.


Luca Sartor

Esploratore indipendente, innamorato dei paesi e delle culture asiatiche. In viaggio da sempre, vivo da anni nel continente asiatico. Seguitemi su INSTAGRAM @lucadeluchis